Giovanni Fornero ha presentato la sua tesi a favore dell’eutanasia in Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico-giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria.
Il filosofo ritiene che l’eutanasia sia legittima perché è una scelta libera.
Ma su cosa poggia la libertà di farsi uccidere?
Su se stessa. E qui si entra in un circolo vizioso.
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Alcuni libri indicano con chiarezza quali tesi sposano sin dal titolo. È certamente il caso dell’ultima fatica di Giovanni Fornero, filosofo laico, noto continuatore dell’opera di Nicola Abbagnano, membro della Consulta di Bioetica e dell’Associazione Luca Coscioni.
L’ultima sua fatica è un corposo volume di 800 pagine dal titolo inequivocabile: Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico-giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria.
Dunque l’Autore sin dal titolo non fa mistero di appoggiare le tesi disponibiliste in merito alle tematiche di fine vita.
Il volume dal punto di vista metodologico ha tre grandi pregi (al netto di alcune lacune, a parer dello scrivente, come ad esempio una non esaustiva analisi della legge 219/2017, la cosiddetta legge sulle Dat): la sintesi delle tesi contrapposte, la chiarezza espositiva e soprattutto la non comune capacità di riportare con fedeltà le principali posizioni dottrinali in campo, senza appunto distorcerne il contenuto per motivi partigiani.
Questo vale anche per la dottrina cattolica verso cui l’Autore si approccia con rispetto e competenza intellettuale.
Ne consegue che chi difende l’indisponibilità della vita non può che rifiutare le tesi contenute in questo volume, ma parimenti lo stesso non può che riconoscere l’onestà intellettuale dell’Autore nella descrizione fedele di tutte le principali posizioni in campo.
In breve il pro-life dissentirà dalle tesi di Fornero, ma ne dovrà apprezzare la limpidezza metodologica.
Passiamo al contenuto. Relativamente alle argomentazioni pro-eutanasia e pro suicidio assistito (l’Autore distingue le due pratiche) moltissime sarebbero le censure da sollevare dato che l’Autore si muove nel solco di alcune classiche argomentazioni pro eutanasia che vanno dalle tesi liberiste a quelle del soggettivismo relativista, da quelle democraticiste a quelle pluraliste, da quelle storiciste e a quelle utilitariste.
Mancando qui lo spazio e volendo aver pietà per il lettore, ci limitiamo ad una riflessione sul binomio libertà-dignità. I due termini, seppur non approfonditi in modo molto analitico, crediamo che rappresentino le fondamenta sopra cui si articolano tutte le argomentazioni del saggio.
Nel testo si illustra che la persona custodisce in sè una propria dignità perchè essere che può esercitare atti liberi (pp. 410-411).
Dunque il rispetto della dignità è rispetto della sua libertà, intesa però non come mera facoltà, come mera potenzialità, ma come facoltà in atto.
A sua volta la libertà si può orientare per alcuni a scelte ossequiose del principio della qualità della vita, optando per l’eutanasia.
Il confronto tra condizioni di vita, valutate in modo negativo ad esempio in caso di patologie gravi, e dignità personale può condurre a scegliere la morte (p. 412).
Quindi la dignità viene interessata da due elementi: l’esercizio della libertà (e così ci riferiamo alla dignità personale perché la libertà in atto è proprietà costitutiva della persona) e la qualità della vita (e così ci riferiamo alla dignità esistenziale perché riferita alla qualità del vivere).
La prima dignità riguarda il soggetto (l’ente, l’essere) la seconda l’oggetto (l’agere, il vivere). E dunque possono darsi esistenze, secondo il giudizio dei diretti interessati, che non sono più consone alla dignità delle persone (pp. 417-418).
Ma cosa è centrale nel pensiero di Fornero: la libertà o la qualità della vita? La libertà.
Infatti per l’Autore il principio di autonomia prevale su quello di beneficialità (pp. 509-510).
Dunque un identico giudizio sulle condizioni di vita, sulla qualità della propria vita, può esitare liberamente in scelte di segno opposto: rifiutare l’eutanasia e voler continuare a vivere, volere l’eutanasia e rifiutare di continuare a vivere.
La fallacia di questo ragionamento è in primis sull’aspetto gnoseologico-antropologico. L’autentico discrimen è dato dall’essere e non dall’esistere.
Uccidere se stessi o terzi innocenti è atto malvagio perché non adeguato all’essere persona, un essere che conserva la sua preziosità incommensurabile anche se calata in una esistenza degradata dal punto di vista qualitativo, in una condizione di vita non dignitosa per la persona, (la malattia, il dolore etc. non sono fatti per l’uomo).
Dunque la censura morale è la seguente: nella prospettiva indicata dal saggio si aggiunge a condizioni di vita indegne un atto ugualmente indegno della preziosità della persona: l’eutanasia o il suicidio assistito.
Il consenso (la libertà) del diretto interessato è una condizione, eventuale, in cui si cala l’atto eutanasico o il suicidio assistito.
Ma questa condizione è incapace di mutare la natura dell’atto che rimane malvagio. Dal punto di vista morale non è rilevante che il consenso sia libero ed informato, occorre che sia razionale, cioè orientato al bene oggettivo della persona, che sia conforme alla sua natura razionale.
Moltissime azioni, che coinvolgono più persone come l’eutanasia, sono consapevoli e libere ma rimangono immorali anche per molti sostenitori dell’eutanasia: la compravendita di stupefacenti o di armi tra criminali, gli atti incestuosi (anche tra maggiorenni), il cannibalismo, che è una forma di eutanasia volontaria (molti sono i casi di cannibalismo consensuale che si registrano in giro per il mondo).
La dignità e non la libertà è il corretto criterio morale da applicare: l’assassinio è atto malvagio non perché la vittima non voglia essere uccisa, ma perché atto contrario alla dignità ontologica sia dell’assassino che dell’assassinato.
E dunque per l’Autore la libertà, rectius: il libero arbitrio produce il bene, la verità morale, la legge etica. Quindi il fulcro delle norme morali è l’autodeterminazione del singolo, la sua autorità su sé stesso.
Auctoritas, non veritas facit legem, appuntava Hobbes (Il Leviatano, II, 26). Ciò che scelgo per il solo fatto di essere scelto è bene.
Invece è vero l’opposto: prima esiste la verità di una dignità incommensurabile della persona, una realtà metafisica che deve essere riconosciuta dall’intelletto nella sua preziosità, e poi c’è il libero arbitrio che si deve adeguare, orientare in ossequio a questo dato di realtà.
Un libero arbitrio che non rispetta la verità diventa schiavitù, ad esempio si scolora in asservimento al dolore, alla malattia, alla infelicità, alla paura, alla morte.
È la verità a generare la libertà e non è la libertà che genera la verità. È la verità che ci farà liberi e non la libertà a farci veri.
La voluntas è sì una potenza in sé buona, ma non ogni termine verso cui si flette la voluntas è buono. Per Fornero il libero arbitrio, comunque sia esercitato, è il bene, invece il bene si pone al di fuori del libero arbitrio e la condiziona con l’assenso, qualificandolo in modo positivo, o il dissenso, qualificandolo in modo negativo.
Se per la prospettiva del personalismo ontologicamente fondato il libero arbitrio, affinchè sia esercitato in modo eticamente valido, deve confrontarsi con il termine di paragone dato dalla preziosità della persona umana, nella prospettiva dei disponibilisti il libero arbitrio si confronta con se stesso, in un circolo vizioso e solipsistico che non può che approvare ogni scelta.
Questa tipologia di libero arbitrio è narcisista, non guarda altro che a sé: è una libertà allo specchio.
Fornero rigetta questa obiezione argomentando che tale ricostruzione della libertà autofondativa è errata perché i disponibilisti motivano il loro agire libero alla luce di alcuni principi etici, di alcune ragioni (p. 377).
Vero, ma tali principi sono sempre scelti in modo assolutamente autonomo e sono insindacabili, sono autoreferenziali, si muovono in uno spazio chiuso.
Lo ripetiamo: non basta che una scelta sia ragionata, motivata, nata alla luce di alcuni principi per dichiararla moralmente valida.
Occorre che le ragioni, i motivi e i principi scelti abbiano un fondamento oggettivo esterno alla mera voluntas del soggetto. In caso contrario qualsiasi ragione, motivo e principio non potrebbe che essere accolto semplicemente perché eletto. Così come la cronaca conferma spesso quando tratta di casi di eutanasia.
Inoltre è da rilevare che molti disponibilisti, in modo contraddittorio, sono favorevoli sì all’eutanasia, posto che tale pratica sia limitata, recintata da alcuni paletti in genere indicati dal diritto o dal senso comune (vedi l’incesto).
La contraddizione sta nel fatto che da una parte si celebra l’autodeterminazione incondizionata e dall’altra si plaude all’eterodeterminazione.
Infatti i vincoli alla dolce morte non vengono scelti da chi vuole morire, bensì imposti in modo autoritativo dal legislatore o dalla sensibilità collettiva.
Il focus allora si sposta dalla libertà dell’individuo alla libertà del legislatore o della maggioranza di imporre dei limiti.
Ecco allora che appena si pone a fondamento della morale la libertà si devono aggiungere correttivi, eccezioni – eutanasia sì solo per dolori insopportabili, solo al termine di un percorso terapeutico rivelatosi fallimentare, solo se la scelta è validata dal parere di uno o più medici, etc. – ma di carattere alla fine apodittico, che in sé confutano la tesi secondo cui la libertà è fondamento della morale.
Poi nella prassi, dato che la stella polare rimane l’autodeterminazione dell’individuo, questi paletti regolarmente saltano tutti, come conseguenza logica del fatto che se la libertà è il valore di riferimento gerarchicamente sovraordinato agli altri allora non tollera limiti.
Tommaso Scandroglio, per https://lanuovabq.it/it/liberta-allo-specchio-leutanasia-si-auto-giustifica