La Ru486 ha ucciso ancora. Perché insistere?
di Viviana Daloiso
Della Ru486 sappiamo che è una pillola abortiva. Pochi dicono chiaramente cosa comporta il suo impiego, o spiegano le modalità attraverso cui induce l’aborto. E, ciò che più conta, nessuno parla delle 16 donne morte in seguito alla sua assunzione negli ultimi anni.
O meglio sarebbe dire 17, visto che da poco è affiorata in Inghilterra la notizia di una nuova vittima dell’aborto chimico che si insiste a voler introdurre anche in Italia come forma più sicura e meno invasiva.
La comunità scientifica internazionale è venuta a conoscenza del nuovo caso di decesso collegato all’impiego della pillola prodotta dalla casa francese Exelgyn, ma l’opinione pubblica italiana è stata lasciata all’oscuro di questa tragedia. Una pillola che ogni tanto uccide anche la donna e non solo il feto dovrebbe inquietare, indurre una sollevazione, imporre una frenata da parte delle autorità di controllo italiane ed europee che per molto meno hanno giustamente chiuso la porta in faccia a farmaci assai più innocenti.
I fatti, adesso. La vittima si chiamava Manon Jones, era inglese. Aveva 18 anni quando è morta all’ospedale Southmead di Bristol, dopo aver abortito con la Ru486. Era il 27 giugno 2005, ma abbiamo dovuto aspettare tre anni per conoscerne la storia. Manon aveva deciso di abortire perché temeva che la gravidanza avrebbe reso conflittuale il rapporto con la famiglia del suo ragazzo, di religione musulmana. Aveva preso il primo dei due prodotti abortivi ¿ la vera e propria Ru486, che provoca la morte dell’embrione in pancia ¿ a sei settimane di gravidanza, il 10 giugno.
E due giorni dopo aveva assunto il secondo farmaco, il misoprostol, quello che induce l’espulsione dell’embrione. Si tratta della procedura tradizionale per la Ru486, di cui da noi non si parla volentieri, nonostante i diversi protocolli di sperimentazione avviati in alcuni degli ospedali del nostro Paese la prevedano: non basta cioè inghiottire una pillola per far sparire il problema.
C’è di più: dopo l’assunzione della prima pastiglia, il feto abortito va ovviamente espulso, e questo – se la paziente non resta in ospedale, come di fatto è accaduto quasi sempre nella fase sperimentale italiana, in barba alla 194 – dovrebbe avvenire nel bagno di casa, in quello dell’ufficio, o dove capita. Anche Manon, prese le pillole in ospedale, se n’era tornata a casa.
A una visita di controllo, il 15 giugno, le era stato detto che tutto procedeva normalmente. Quattro giorni dopo, era partita per una vacanza, che però aveva dovuto interrompere prima del previsto: il 23 giugno era tornata in ospedale perché si sentiva troppo male. Quando sua madre la raggiunse, Manon era già in terapia intensiva, dove poi è morta quattro giorni dopo per ipovolemia, cioè una diminuzione di volume del sangue circolante, dovuta a una perdita eccessiva di sangue, un’emorragia per la quale si era aspettato troppo. Il giudizio dei medici non fu concorde sulle cause, così il caso di Manon finì nel cestino dell’indifferenza, come la maggior parte degli altri 16 certificati e documentati nel mondo, non di rado tra omertà e censure inspiegabili (basti pensare al bollettino dell’Agenzia italiana per la farmacovigilanza l’Aifa, n.4 del 2007, nell’articolo intitolato «Ru486: efficacia e sicurezza di un farmaco che non c’è», in cui venivano riportati solo nove casi di donne morte).
Il fatto certo è che questa procedura abortiva, oltre che le misteriose morti per infezione da Clostridium Sordellii (il batterio che causa sepsi, a cui sono riconducibili 9 dei decessi in questione), può indurre perdite di sangue improvvise e abbondanti anche dopo diversi giorni dall’espulsione dell’embrione, emorragie che diventano fatali se non c’è un ricovero immediato in un ospedale attrezzato per trasfusioni.
Diciassette morti, dunque, sembrano ancora non bastare per dire che in Italia una pillola simile non ha senso adottarla per nessun motivo clinico, tantomeno per seguire l’ostinazione dei fautori dell’aborto senza alcun limite o per dar retta a quanti parlano di "vergogna" italiana nel non allinearsi ai Paesi che già adottano la Ru486 da tempo. Motivazione singolare e scientificamente risibile. E pensare che, per scatenare un allarme su altri farmaci, di vittime non ne sono nemmeno servite: tutti ricordiamo il caso dell’Aulin, il popolare anti-infiammatorio a base di nimesulide finito sotto i riflettori della cronaca l’anno scorso dopo la sua sospensione in Irlanda.
Lì erano stati segnalati, da parte della National Liver Transplant Unit dell’ospedale St. Vincent, 6 casi di insufficienza epatica grave che avevano richiesto il trapianto di fegato e che erano correlati all’assunzione del farmaco. Presto il caso divenne internazionale, altri Paesi dell’Ue decisero di seguire l’esempio dell’Irlanda, l’Emea (l’Agenzia del farmaco europea) usò parole durissime contro il farmaco. E l’Aifa decise di restringere la prescrizione e l’impiego dell’Aulin in Italia. Nel caso di altri farmaci o vaccini risultati dannosi per la salute, poi, l’Aifa ha sempre adottato lo stesso doveroso atteggiamento di cautela: qualora ne esistessero altri in grado di sostituirli, senza causare danni, i primi sono stati vietati. Considerando che il tasso di mortalità dell’aborto chimico, secondo la letteratura scientifica, è dieci volte superiore a quello chirurgico, sembra lecito chiedersi perché la stessa prudenza non venga adottata anche con la Ru486. E allora, perché si insiste così tanto?
di Viviana Daloiso
Avvenire-èVita 18/12/2008