Equivoci a proposito di duplice effetto e accanimento terapeutico

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ROMA, domenica, 26 marzo 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica la risposta alla domanda di un lettore da parte della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facolt? di Bioetica dell?Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.


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Dottoressa Navarini, gradirei molto un suo autorevole parere sul Singer, in generale ed, in particolare, su due tesi che quest’ autore sostiene, in buona compagnia con alcuni campioni nostrani del “pensiero laico” come Uberto Scarpelli, Eugenio Lecaldano e Maurizio Mori.
La prima: gli stessi difensori del paradigma della sacralit?-indisponibilit? di ogni vita umana, di fronte a situazioni particolarmente difficili, introducono surrettiziamente definizioni e distinzioni tali che li portano a contraddirsi e, agendo in modo incoerente con la loro convinzione dichiarata, optano, effettivamente, per l’ alternativa radicale sostenuta da Singer e soci, ovvero quella della preminenza della qualit?-disponibilit? della vita.
Usando le stesse parole di Singer: “Hanno ridefinito la morte, in modo da giustificare la rimozione di cuori ancora pulsanti da corpi caldi e respiranti, e il loro trapianto in individui con prospettive migliori, dicendo a se stessi di non fare altro che prelevare organi da un cadavere. Hanno introdotto la distinzione tra mezzi terapeutici ordinari e straordinari, e questo ha consentito loro di persuadersi che la loro decisione di togliere il respiratore a una paziente in stato di coma irreversibile non ha nulla a che fare con la bassa qualit? della sua vita. Somministrano ai malati terminali dosi massicce di morfina che sanno avere l’ effetto di accelerare la morte, ma dicono che questa prassi non pu? definirsi una forma di eutanasia, in quanto la loro intenzione dichiarata ? solo quella di alleviare il dolore. Destinano al non trattamento i neonati affetti da menomazioni gravi e fanno s? che muoiano, senza per questo considerarsi responsabili della loro morte….Prendere sul serio l’ idea che la vita umana ? ugualmente degna di cura e sostegno indipendentemente dalla sua capacit? di coscienza vorrebbe dire escludere dalla medicina non solo i giudizi espliciti sulla qualit? della vita, ma anche quelli impliciti e mascherati. E allora ci toccherebbe fare sempre del nostro meglio per prolungare indefinitamente la vita di bambini anencefalici o affetti da morte corticale e quella di pazienti in stato vegetativo persistente”.

La seconda, esplicitata da Lecaldano, afferma non solo la contraddittoriet? teorica, ma anche l’ inefficienza e la sterilit? operativa della difesa ad oltranza della sacralit? della vita. Questo significherebbe che solo tenendo fermo il concetto di qualit? della vita si potrebbero:
1 – ricavare gradazioni e giudizi comparativi, (certe vite risulterebbero meriterebbero di essere vissute, altre meno…);
2 – affrontare le questioni onerose e difficili sollevate dalla pratica clinica e dalla giustizia sanitaria (ad esempio come distribuire la spesa medica o quali individui privilegiare, nei casi di interventi ugualmente necessari ed urgenti).
La ringrazio molto per l’ attenzione che potr? dedicarmi, mi congratulo e le formulo i migliori auguri per la sua preziosissima attivit?.
Stefano P., Rovigo

Caro Stefano,

i suoi quesiti toccano un punto fondamentale della riflessione bioetica, ovvero la distinzione tra sacralit? e qualit? della vita umana. Come lei correttamente nota, una delle accuse pi? frequentemente mosse dai sostenitori della seconda ? quella dell?ipocrisia, che lei illustra con le parole di Singer nella prima tesi.

E su questa vorrei soffermarmi, rinviando ? per un giudizio pi? generale sul pensiero di Singer ? ad un mio articolo apparso in questa stessa rubrica alcuni mesi fa (C. Navarini, Profezie rivelatrici della cultura di morte, ZENIT, 4 dicembre 2005). L?obiezione di Lecaldano, in quanto direttamente conseguente dai presupposti della prima tesi, risulter? poi facilmente confutabile.

Autori come Peter Singer (ma potrei indicare molti altri, fra cui gli autori da lei richiamati) si attardano lungamente nel tentativo di mostrare che anche la Chiesa avrebbe mutato il suo pensiero e la sua valutazione etica riguardo molte questioni bioetiche, soprattutto attraverso un uso ?opportuno o opportunista? del principio etico del ?duplice effetto? (cfr. ad es. D. Neri, Eutanasia. Valori, scelte morali, dignit? delle persone, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 69-87).

Tale principio, invero utilizzato in teologia e in filosofia morale da molto tempo, si enuncia sostanzialmente cos?: ?? lecito compiere un?azione (o ometterla deliberatamente) anche quando questa scelta comporta (?) un effetto cattivo, alle seguenti condizioni:
– che l?intenzione dell?agente sia informata dalla finalit? positiva
– che l?effetto diretto dell?intervento sia quello positivo
– che l?effetto positivo sia proporzionalmente superiore o almeno equivalente all?effetto negativo
– che l?intervento (?) non abbia altri rimedi esenti da effetti negativi? (E. Sgreccia, Manuale di bioetica. I Fondamenti ed etica medica, Vita e Pensiero, Milano 1999III, p. 177).

In altre parole, ? lecito tollerare un effetto negativo ? la cui ricerca ? moralmente condannabile ? come conseguenza inevitabile, prevista ma non voluta, di un atto buono che produce, direttamente e in prima istanza, un effetto positivo. In virt? di tale principio, viene riconosciuta l?assenza di responsabilit? etica, ad esempio, nell?aborto involontario indiretto, cio? nel caso di un aborto che seguisse al tentativo di salvare la vita della madre. Potr? essere un trattamento farmacologico (ad esempio una chemioterapia), o un intervento alle vie genitali femminili eseguito non gi? per eliminare il feto, ma per asportare un tumore uterino (cfr. J. de Finance, Etica generale, Tipografica Meridionale Cassano Murge [Bari] 1994, p. 337).

Allo stesso modo, laddove un morente sia stremato da dolori intollerabili, ? lecito somministrargli analgesici in dosi efficaci a lenire il dolore, anche se ci? comportasse una lieve anticipazione della morte. Lo diceva gi? papa Pio XII nel 1957, invocando appunto il principio del duplice effetto; il passaggio ? riportato testualmente nella Dichiarazione sull?eutanasia ?Iura et bona? della Congregazione per la Dottrina della Fede (1980, parte III): ?Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici… ? permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all?avvicinarsi della morte e se si prevede che l?uso dei narcotici abbrevier? la vita)? , il Papa rispose: Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ci? non impedisce l?adempimento di altri doveri religiosi e morali: S? (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 147). In questo caso, infatti, ? chiaro che la morte non ? voluta o ricercata in alcun modo, bench? se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone?.

A dire il vero le attuali possibilit? farmacologiche rendono l?evento dell?anticipazione della morte per l?uso di analgesici oppiacei sempre pi? improbabile e controllabile, ma ? al di l? dei casi specifici ? resta il principio etico di fondo, che ricorre pi? spesso di quanto si creda anche nelle scelte quotidiane. Sgreccia lo applica alla farmacologia in genere: ?come la terapia farmacologica porta con s? spesso effetti secondari collegati all?effetto terapeutico principale direttamente inteso, cos? capita spesso nell?esperienza morale che ad un?azione buona e, talora, anche necessaria, siano collegate prevedibili conseguenze negative? (cfr. E. Sgreccia, Manuale?cit., p. 177).

E continua: ?lo stesso lavoro quotidiano di ognuno di noi, fatto con fedelt? e assiduit? (?), pu? comportare effetti negativi alla salute (?). Bisognerebbe uscire dal mondo o condannarsi all?inerzia per evitare ogni possibile risvolto negativo? (ibidem). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi all?infinito.

Perch? il ricorso al principio del duplice effetto non sia appunto una forma mascherata di utilitarismo ? essenziale che realmente l?effetto negativo non sia voluto n? ricercato in alcun modo ? nemmeno come mezzo per ottenere un fine buono ? , ma sia unicamente subito come inevitabile.

Totalmente diverso ?, invece, scegliere positivamente un male, anche se come mezzo per ottenere un bene o per evitare mali maggiori. Un male non pu? mai essere oggetto di scelta, senza connotare in modo eticamente negativo l?intero atto umano. La responsabilit? morale di ciascuno, infatti, riguarda gli atti compiuti ? quanto all?oggetto, ai fini, ai mezzi e alle circostanze dell?atto ? e non tutte le conseguenze che da tale atto possono scaturire, soprattutto quando esse coinvolgono la libert? altrui. Sar? tuttavia doveroso fare il possibile per evitare o ridurre gli effetti negativi.

Per quanto concerne la rinuncia all?accanimento terapeutico, l?ambiguit? su questo concetto ? funzionale alle peggiori manipolazioni, ed ? prevedibile che ci? divenga sempre pi? evidente nel prossimo futuro. Una delle modalit? privilegiate per guadagnare il consenso dell?opinione pubblica all?eutanasia ? proprio quella di incitare i cittadini a battersi contro l?accanimento terapeutico dei medici, dove per? per ?accanimento terapeutico? si intende la somministrazione di cure dovute a ciascuno in ogni condizione – cure assolutamente necessarie per mantenere in vita una persona – come l?alimentazione e l?idratazione artificiali, la respirazione assistita, la dialisi, le emotrasfusioni. La stessa rianimazione cardiopolmonare pu? essere considerata una forma di accanimento soltanto in particolari circostanze.

Ci? che qualifica un trattamento come ?eccessivo? ? l?intenzione di prolungare l?agonia, gravando inutilmente il malato con terapie sproporzionate rispetto alla sua situazione, che ? di imminenza della morte, e non la considerazione che la vita ? a certe condizioni ? non sia pi? ?degna di essere vissuta?, e che sia preferibile la morte. In questo caso, infatti, l?oggetto dell?atto non sarebbe effettivamente la rinuncia ai trattamenti gravosi, ma la scelta della morte, propria o di un paziente in fase terminale (cfr. C. Navarini, Accanimento terapeutico e amore per la vita, ZENIT, 19 marzo 2006).

Un capitolo a parte andrebbe aperto per la questione della morte cerebrale totale, che Singer definisce un modo ipocrita di eliminare i soggetti con ?qualit? di vita molto bassa?. Il criterio cerebrale per la diagnosi di morte vede, accanto a molti sostenitori, alcuni oppositori, che si interrogano sul valore della ?compromissione irreversibile di tutte le funzioni dell?encefalo?, come previsto anche dalla legge italiana per l?accertamento della morte avvenuta (cfr. L. 578/1993). ? certamente importante che la riflessione e le ricerche sul tema continuino, al fine di verificare sempre meglio l?attendibilit? di tale criterio. Tuttavia, il criterio cerebrale ?, allo stato attuale, ritenuto scientificamente affidabile, pertanto ? sostenuto anche filosoficamente in modo del tutto onesto.

Proprio per questa ragione si pone particolare attenzione nel distinguere la morte di tutto l?encefalo come morte della persona, di contro alla sola morte della corteccia cerebrale che compromette le funzioni superiori ma non indica la morte umana. Questa differenza, per Singer, non ha alcun valore, dal momento che il suo intento ? come quello in genere degli utilitaristi ? ? quello di usare qualunque mezzo per rigettare la millenaria visione sacrale della vita umana, una visione che ha le sue radici nella legge morale naturale accessibile a tutti gli uomini attraverso l?uso della retta ragione.

L?intento volutamente manipolatorio ? esplicitato dalle parole da lei citate: ?allora ci toccherebbe fare sempre del nostro meglio per prolungare indefinitamente la vita di bambini anencefalici o affetti da morte corticale e quella di pazienti in stato vegetativo persistente?. Dopo avere accusato di ipocrisia la valutazione di vari casi-limite, si cerca di far rientrare nelle stesse categorie casi completamente diversi (come l?anencefalia, la morte corticale, lo stato vegetativo) che non rientrano di per s? n? nelle situazioni di accanimento terapeutico, n? di morte cerebrale totale, n? di ricorso al duplice effetto.

? evidentemente necessario fare di tutto per prolungare la vita dei bambini anencefalici, dei soggetti in morte corticale o in stato vegetativo persistente. Indefinitamente, se possibile. ? noto che tali condizioni critiche evolvono spontaneamente verso la morte (sebbene nello stato vegetativo ci? possa avvenire dopo molti anni), configurando eventualmente situazioni di accanimento terapeutico che ? bene evitare. E tuttavia il personale sanitario ? tenuto a circondare queste fragili vite di tutta la cura dovuta a esseri umani bisognosi, nella consapevolezza che i limiti intrinseci della medicina e la finitezza della natura umana non possono tramutarsi in pretesti per lasciar morire o sopprimere i pi? deboli.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all?indirizzo: bioetica@ZENIT.org . La dottoressa Navarini risponder? personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la citt? di provenienza]
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