Così, l’American Psychological Association (APA) ha deciso che la virilità è un problema da curare. Un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista della più importante associazione professionale di psicologi al mondo asserisce che «Tredici anni di lavoro, attingono a oltre 40 anni di ricerca che dimostrano che la mascolinità tradizionale è psicologicamente dannosa».
È così: in tredici anni di lavoro gli psicologi hanno scoperto che gli uomini virili non vanno volentieri dal medico e che indulgono in comportamenti pericolosi: fumare, bere e… «evitare le verdure» (testuale). Sembra di sentire la mamma: «Mangia la verdura! Ti fa bene, è per la salute! Se non mangi la verdura ti mando dallo psicologo!».
Un momento… in effetti l’articolo sulla pericolosità della virilità tradizionale… è scritto da una donna. Incidentalmente impegnata nel sostenere i diritti dei gay, ma è sicuramente un caso. Non solo: hanno anche appreso che «gli uomini sono spesso riluttanti ad ammettere vulnerabilità». Se solo sapessero che la Bussola incoraggia questo comportamento…
Il dato utilizzato per avvalorare l’ipotesi che la virilità fa male è dato dal tasso di suicidi. Fino alla pubertà non ci sono differenze tra maschi e femmine; dopo il tasso di suicidi tra gli uomini si distacca enormemente da quello delle donne.
Dunque… la virilità uccide?
Ridicolo. La faccenda, tuttavia, è seria e merita qualche ulteriore riflessione. Innanzitutto notiamo che il tasso di suicidi, tra gli uomini, mostra un’impennata con la terza età. Se fosse vero che è la virilità, con il suo carico di aspettative di genere tra le quali il lavoro, uccide… gli uomini dovrebbero smettere di suicidarsi smettendo di lavorare. Invece sembra proprio l’opposto: sembra che il ruolo stereotipato dell’uomo lavoratore faccia bene agli uomini, che gli dia un motivo per vivere. È il grande insegnamento dello psicologo ebreo Viktor Frankl (1905-1997): l’essere umano, per vivere, ha bisogno di un significato, di un senso. E se il lavoro fosse realmente uno dei significati della vita dell’uomo, e non una semplice costruzione sociale?
Secondariamente, se l’ipotesi fosse vera, ci aspetteremmo che il tasso di suicidi tra gli uomini diminuisca nel tempo. Gli ultimi decenni, infatti, hanno messo in discussione gli «stereotipi di genere» e c’è una crescente pressione mediatica e sociale perché gli uomini si prendano cura della loro salute, esprimano i loro sentimenti e mangino verdura. Invece no: dagli anni Cinquanta del secolo scorso il tasso di suicidi tra gli uomini sembra crescere costantemente. Sembra che, con la distruzione degli stereotipi di genere, l’uomo sia più incline al suicidio.
Possiamo avanzare delle ipotesi? Abbiamo detto che l’essere umano (uomo o donna) ha bisogno di un significato nella vita; e che, forse, il lavoro dà senso alla vita dell’uomo. Potrebbe essere così anche per la capacità di mantenere la famiglia e di provvedere al suo sostentamento?
Sembrerebbe di sì. Osserviamo questo grafico: indica l’andamento del salario degli uomini negli Usa negli ultimi trent’annni. Abbastanza desolante, in effetti.
Confrontiamolo con quest’altro, che si riferisce all’andamento del salario delle donne. È sicuramente una bella cosa che il salario delle donne sia aumentato negli ultimi decenni, ma sarebbe ancora meglio che fosse aumentato anche quello degli uomini. Invece no.
E se questo fattore avesse contribuito ad aumentare il tasso di suicidi tra gli uomini? Se il politicamente corretto e le battaglie per la «uguaglianza» di genere avessero avvantaggiato le donne indipendentemente dall’andamento dell’economia reale e, soprattutto, a scapito degli uomini? Se la nostra società avesse tolto all’uomo anche un altro motivo per vivere, il compito di provvedere ai bisogni della famiglia? Non c’è traccia di queste riflessioni, nell’articolo dell’APA.
Il rimedio proposto al malessere degli uomini – malessere che ha un senso attribuire al gender e al politicamente corretto – è omeopatico: più gender, più politicamente corretto. L’articolo, infatti, presenta un nuovo documento APA: le Linee guida per il lavoro clinico con ragazzi e uomini.
Ne volete un assaggio? Ecco la prima: «Gli psicologi si sforzano di riconoscere che le mascolinità [plurale] sono costrutti basati su norme sociali, culturali e contestuali». E se così non fosse? E se il lavoro e la capacità di mantenere la famiglia non fossero «basati su norme sociali, culturali e contestuali» ma un compito iscritto nell’essenza della virilità, senza i quali gli uomini si sentono inutili?
Ecco la terza: «Gli psicologi comprendono l’impatto di potere, privilegio e sessismo sullo sviluppo dei ragazzi e degli uomini e sulle loro relazioni con altri». Credo che non abbia bisogno di commento.
La quinta? «Gli psicologi si sforzano di incoraggiare il coinvolgimento positivo del padre e relazioni familiari sane». Già, perché – così vuole la vulgata liberal – gli uomini non sono buoni genitori, si disinteressano dei bambini: passano il tempo a uccidere, a picchiare le donne, a ubriacarsi e a fuggire dalla verdura. Eppure l’articolo di presentazione delle linee guida lo dice chiaramente: «gli uomini amano prendersi cura dei propri figli tanto quanto le donne»! E allora? Non sarà forse, l’idea che gli uomini non siano buoni genitori, uno stereotipo di genere? Evidentemente ci sono stereotipi e stereotipi: alcuni vanno bene, altri no…
Concludo con una osservazione. Si noti che queste sono «linee guida», sono cioè indicazioni sulla base delle quali il comportamento clinico del professionista è giudicato appropriato, professionale, idoneo.
Questo significa che, se uno psicologo vuole essere un bravo psicologo, serio e professionale, è tenuto a osservare tali linee guida. In questo modo diventa un (volonteroso) strumento al servizio della Rivoluzione.
Un giorno qualche buon’anima scriverà una seria storia della psicologia, e metterà in evidenza che la psicologia contemporanea non è altro che un’arma nella guerra culturale che il mondo sta combattendo contro il Logos.
Roberto Marchesini, per http://www.lanuovabq.it/it/la-virilita-adesso-e-un-male-da-curare